Difficile crederlo: sono passati undici anni e dopo aver consumato per tutto questo tempo i due dischi dei Portishead, oggi potrò addirittura vederli sul palco armati di nuovi brani. Talmente surreale e atteso questo momento che quasi non mi convince.
Mento: appena si spengono le luci all’Alcatraz di Milano uno strano gelo mi rapisce.
Fisso una colonna e improvvisamente compare l’ombra della sagoma di una donna: è magra, con le spalle chiuse e il capo chino, è proprio lei, è Beth Gibbons... e dietro di lei ci sono gli stessi compagni che hanno fatto la Storia del del Trip-Hop di Bristol. Quelli dei groove assassini e grigi, umidi e sensuali, sono proprio loro, su un palco scarno ma essenziale accompagnati da altri tre turnisti e da tre schermi in bianco-nero.
Le immagini spezzate e sovraesposte dei video riprendono l’antico stile del clip di “All Mine”: le riprese regalano al pubblico tutti i particolari più inscrutabili, dalle pedaliere della chitarra, alle mani della Gibbons aggrappata di tutto peso e sofferenza all’asta del microfono, alle bacchette di Barrow che incendiano sincopate l’aria.
È tutto perfetto, i suoni sono veri, alla faccia dell’elettronica campionata e dei computer. Chitarre, percussioni, basso, scratch, pads e cuori, ecco la formula vincente di una band elettronica che suona gli strumenti “di legno”.
La band, non spaventata dagli undici anni di assenza dai palchi, attacca il pubblico con i due brani di apertura dell’ancora non licenziato album “Third”.
“Silent” è una canzone che ringhia vendetta confusa da una chitarra noise in pieno stile Sonic Youth, “Hunter” è invece una ninnananna da Tim Burton: convulsa, suadente e tetra.
Questi sono i nuovi Portishead: il loro fregio sonoro e canoro è inconfondibile, si respira ancora il grigio degli anni ’90 ma undici anni chiusi in un cassetto hanno senza dubbio avuto il loro effetto, hanno custodito perfettamente la voce di Beth Gibbons e le hanno costruito attorno una tesa e geometrica tela di suoni ruvidi, asciutti e sofferti. Cambiano gli ingredienti ma la miscela finale è la stessa: la perfetta coesistenza di poesia e gelo meccanico.
D’ora in poi la performance non risparmia più nulla e nessuno: le note di "Glory Box" “Numb” e “Over” stendono il pubblico assorto da un sogno divenuto realtà e si alternano con i brani nuovi; dalla Kraftwerkiana “The Rip” alla fascinosa “Magic doors”.
Il culmine si raggiunge con “Machine gun”, primo singolo che sarà estratto da “Third”, la violenza e la poesia si fondono chirurgicamente e convincono definitivamente il pubblico che i Portishead fanno ancora sul serio. Il tempo mi ha rapito, sono già passati 90 minuti ma mancano ancora due perle. Dopo un breve respiro infatti si insinuano lente le note di “Roads” e la voce di Beth spacca il cuore a tutto l’Alcatraz. Sembra il migliore epilogo per celebrare il ritorno dei Portishead ma proprio loro non ci stanno e decidono di lasciarci con l’ancora inedito “We carry on” giusto per sottolineare che non c’è solo pace amore nel loro animo. Suona tutto come un graffio crescente, ogni giro è sempre più profondo e colmo di chitarre, sette minuti di ipnosi e d’improvviso STOP.
Ecco i Portishead che se ne vanno elegantemente immacolati e di ghiaccio.
Mento: appena si spengono le luci all’Alcatraz di Milano uno strano gelo mi rapisce.
Fisso una colonna e improvvisamente compare l’ombra della sagoma di una donna: è magra, con le spalle chiuse e il capo chino, è proprio lei, è Beth Gibbons... e dietro di lei ci sono gli stessi compagni che hanno fatto la Storia del del Trip-Hop di Bristol. Quelli dei groove assassini e grigi, umidi e sensuali, sono proprio loro, su un palco scarno ma essenziale accompagnati da altri tre turnisti e da tre schermi in bianco-nero.
Le immagini spezzate e sovraesposte dei video riprendono l’antico stile del clip di “All Mine”: le riprese regalano al pubblico tutti i particolari più inscrutabili, dalle pedaliere della chitarra, alle mani della Gibbons aggrappata di tutto peso e sofferenza all’asta del microfono, alle bacchette di Barrow che incendiano sincopate l’aria.
È tutto perfetto, i suoni sono veri, alla faccia dell’elettronica campionata e dei computer. Chitarre, percussioni, basso, scratch, pads e cuori, ecco la formula vincente di una band elettronica che suona gli strumenti “di legno”.
La band, non spaventata dagli undici anni di assenza dai palchi, attacca il pubblico con i due brani di apertura dell’ancora non licenziato album “Third”.
“Silent” è una canzone che ringhia vendetta confusa da una chitarra noise in pieno stile Sonic Youth, “Hunter” è invece una ninnananna da Tim Burton: convulsa, suadente e tetra.
Questi sono i nuovi Portishead: il loro fregio sonoro e canoro è inconfondibile, si respira ancora il grigio degli anni ’90 ma undici anni chiusi in un cassetto hanno senza dubbio avuto il loro effetto, hanno custodito perfettamente la voce di Beth Gibbons e le hanno costruito attorno una tesa e geometrica tela di suoni ruvidi, asciutti e sofferti. Cambiano gli ingredienti ma la miscela finale è la stessa: la perfetta coesistenza di poesia e gelo meccanico.
D’ora in poi la performance non risparmia più nulla e nessuno: le note di "Glory Box" “Numb” e “Over” stendono il pubblico assorto da un sogno divenuto realtà e si alternano con i brani nuovi; dalla Kraftwerkiana “The Rip” alla fascinosa “Magic doors”.
Il culmine si raggiunge con “Machine gun”, primo singolo che sarà estratto da “Third”, la violenza e la poesia si fondono chirurgicamente e convincono definitivamente il pubblico che i Portishead fanno ancora sul serio. Il tempo mi ha rapito, sono già passati 90 minuti ma mancano ancora due perle. Dopo un breve respiro infatti si insinuano lente le note di “Roads” e la voce di Beth spacca il cuore a tutto l’Alcatraz. Sembra il migliore epilogo per celebrare il ritorno dei Portishead ma proprio loro non ci stanno e decidono di lasciarci con l’ancora inedito “We carry on” giusto per sottolineare che non c’è solo pace amore nel loro animo. Suona tutto come un graffio crescente, ogni giro è sempre più profondo e colmo di chitarre, sette minuti di ipnosi e d’improvviso STOP.
Ecco i Portishead che se ne vanno elegantemente immacolati e di ghiaccio.
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