21/03/11

ROCK'N'ROLL REQUIEM

- Considerazioni -


Che crisi.
Quei tre accordi sono sempre gli stessi da troppi anni. Per l'esattezza dal 16 agosto del 1977, giorno in cui Elvis e il rock'n'roll hanno dichiarato la fine della propria esistenza.
Già allora tutti gli esperimenti e i suoni che si potevano tirar fuori da una qualsiasi chitarra erano finiti. Di lì in poi di quel genere è stato destato solo lo zombie geneticamente modificato. Penso al garage/punk: Sex Pistols, Ramones e Cramps prima di tutti gli altri.
Il resto, purtroppo, e mi perdonino gli Stray Cats che adoro, era solo un prodotto in carta carbone.

Credete, scriver male del proprio amore è difficile.
Ma è un lento tirare le cuoia da allora e oggi la situazione è quanto mai disperata.
Oggi il r'n'r è il nuovo disco dei Beady Eye, forse il migliore della covata dei credenti più pop del genere. Un buon prodotto tutto sommato, di gran lunga superiore alle ultime cagate di Black Rebel Motorcycle Club e simil pop/rock makers. Ma che si affloscia clamorosamente inciampando sulla voglia di Noel Gallagher di regalarci ancora le sue cantilene dalla cronica lentezza. Eccheccazzo, basta.

Oppure? Scendiamo di popolarità.
L'alfiere Jon Spencer continua ad imitare sè stesso. E quando deve lanciare il cuore oltre l'ostacolo, si ritrova a suonare del garage becero o del folk malato che capiscono in quindici.
I Black Angels stentano a vita sullo psych a lunga mandata non accorgendosi che in quattro anni riescono a forare le orecchie solo con un brano di due minuti fotocopiato dai sessanta dei Kinks, Telephone.

I Black Lips non si sa più chi sono. Se gli antesignani della stirpe Stooges/Seeds & C. o i pischelli alcolizzati dal ritornello idiota. Nell'incertezza scatta il cazzeggio.

Dan Sartain è un animale solo. Legato ai prototipi di un sound che cura e modella all'inverosimile. Un inchino alla costanza (un esempio? Walk Among The Cobras l'avrà rifatta in settantadue versioni diverse, e la migliore continua ad essere la prima...) ma un severo skip a gran parte del resto.

I Brian Jonestown Massacre sono partiti per un lungo viaggio nello spazio con uno stuolo di un centinaio di fans al seguito. Non mi stupirei se tutto finisse in un grandioso suicidio di massa.

Jim Jones è un grande animale da palcoscenico, uno alla Jerry Lee. Ma la differenza fra un suo disco e un cantiere con 50 muratori all'opera fatica a notarsi. Ruvido, sudicio, vero, ma dopo venti minuti ti scoppia la testa. E non c'è mai il brano che apre una misera alternativa sonora.

I Dirtbombs, beh, quelli l'hanno capita, per il momento hanno cambiato genere, è ri-cominciato il cover-happy-hour, "poi si vedrà".

E mi piacerebbe tanto poter considerare i Black Keys nel gruppone. Ma non sarebbe legittimo. Trattasi per la maggior parte di altra deriva e se aprissi a loro dovrei considerare un'altra trentina di gruppi. Mi fermo, basta così.
In poche parole, da anni, siamo di fronte ad una profonda crisi che sostiene (a stento) giusto i fedeli bendati. E ogni disco della In the Red (e compagnia), assomiglia sempre più ad un requiem ben orchestrato più che ad una vera e propria proposta.

In mezzo a tanto scoramento, bisogna guardare in faccia la realtà: le melodie sono finite. Gli orizzonti si allargano a concezioni jazzistiche, al suono-non-suono, alla pura astrazione. Siamo ad un bivio: o andiamo avanti, o solennemente ce ne torniamo indietro, zitti.
Un amico appassionato di Motown mi ha detto che il disco di James Blake gli ha aperto la mente.
Ecco, appunto.

2 commenti:

Kekko ha detto...

sì ma ci son pur sempre cose tipo valient thorr... :)

Deni ha detto...

La risposta più sana probabilmente è
"SOLENNEMENTE CE NE TORNIAMO INDIETRO".
Zitti o meno, non fa differenza.

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