25/11/10

IL VECCHIO DETTO DEI DENTI E DEL PANE

- Frequenze Double Live -


Foto: Francesca Sara Cauli per Frequenze Indipendenti

"Chi ha i denti non ha il pane"

FRIGHTENED RABBIT
Covo, Bologna, 13 novembre 2010

Sabato 13 novembre andiamo al Covo con la sensazione di essere in fase di riscaldamento per l’appuntamento del martedì successivo a Milano per i National. Non ci sono molte aspettative per il live dei Frightened Rabbit, solo l’intenzione di ascoltare un paio d’ore di onesta musica dal vivo, senza pretese d’eccessiva originalità. A distanza di una settimana, o poco meno, mi vien da pensare che chi non ha il pane ha i denti e viceversa. Il concerto ideale avrebbe fuso assieme la voglia e la carica del gruppo scozzese e le canzoni di Matt Berninger.
Di sicuro Scott Hutchinson, cantante dei Frightened, non si è risparmiato, già dal primo minuto, dall’apertura di Things, brano dell’ultimo album in studio, The Winter of Mixed Drinks. Confida, sudando per il caldo e per l’energia che sprigiona sul pur minuscolo palco del Covo, che in Italia c’erano già stati qualche anno prima, di fronte a dieci persone. La sera del 13 non c’erano le duemila dell’Alcatraz, ma almeno duecento di sicuro. Scott Hutchinson canta come l’Adam Duritz più ispirato e intenso, le due chitarre di Billy Kennedy e di Andy Monaghan crescono di volume e compattezza in Old Old Fashioned, dal precedente The Midnight Organ Fight, accompagnate dalla batteria del fratello di Scott, Grant Hutchinson, non certo raffinata, ma incalzante e coinvolgente. Il problema dei Frightened è che dopo mezz’ora si ha l’impressione di aver già sentito tutti i pezzi. Gli arrangiamenti, per quanto caratterizzino, sono fin troppo monocordi, la costruzione delle canzoni ripercorre sempre lo stesso copione, riuscito senza dubbio, ma alla lunga monotono.
Il pubblico, probabilmente per metà d’oltremanica, si lascia comunque trasportare, si scatena quando dal microfono si sente “è sabato, potete anche ballare”, come a sottolineare la voglia e l’esigenza di rendere il concerto una festa.
I due bis, The Twist e The Loneliness and the Scream, sono la degna conclusione di un live tutto sommato piacevole, tirato e pieno, Scott gronda di sudore ma sembra contento. Ci fermiamo a bere una birra, in fondo alla sala. Dopo mezz’ora li vediamo passare, strumenti ed amplificatori alla mano, e caricare da soli il furgone sul quale si spostano. Martedì, a Milano, c’erano due autobus immacolati solo per accogliere i cinque membri dei National, un Tir per caricare luci, schermo e strumenti del gruppo di Brooklyn. Nemmeno per staccare il jack dalla chitarra, si sono sporcati le mani. La differenza forse sta tutta qui. Chi ha il pane, chi ha canzoni che fanno gridare al capolavoro, si è dimenticato di cosa voglia dire guadagnarsi un palco con fatica ed entusiasmo, di cosa voglia dire sgombrarselo, quello stesso palco. Gli altri, quelli che lo stesso pane non riescono ad averlo, ci mettono tutto l’impegno per compensare mancanze compositive e l’entusiasmo di chi ha la consapevolezza di essere in ogni caso fortunati per il solo fatto di poter essere su un palco spoglio, di fronte a duecento persone soltanto.



Foto: Francesca Sara Cauli per Frequenze Indipendenti

"Chi ha il pane non ha denti"

THE NATIONAL
Alcatraz, Milano, 16 novembre 2010

L’appartamento in cui sono ospite dista solo cinque chilometri dall’Alcatraz. Nella mia ingenuità da bolognese in trasferta mi illudo siano pochi. A Bologna lo sarebbero. A Milano no. Ci metto ¾ d’ora di macchina, un’altra mezz’ora per trovare un parcheggio non a rischio di ritiro patente, pensando che tuttavia ne sarebbe valsa la pena. Il live dei National è l’evento che aspettavo con più ansia, quest’anno, e mi accollo, quasi contento, le code ai semafori, la pioggia fina fina in periferia, i bagarini che provano a spacciare biglietti come allo stadio, persino la birra a sei euro dentro il locale.
Alle 21e50, dopo la noiosa esibizione del gruppo spalla, The Phosphorescent, escono Matt Berninger e compagni nell’ovazione generale. L’attacco di Runaway fa pensare ad un gran concerto. Il suono sembra compatto, la sua voce persino più profonda che sull’album, più intensa. Il palco, molto ben allestito, con un telo sul quale passano immagini di nubi in movimento, le luci calde, adatte all’atmosfera, soffici.
Anyone’s Ghost smorza subito l’entusiasmo.
All’inizio promettente non è seguito un live altrettanto riuscito. Bloodbuzz Ohio, sicuramente uno dei brani più intensi dei The National è sembrato scarico, povero, poco ispirato. Sorrow, trascinata; al punto che il pubblico, appena Matt inizia a cantare, smette di accompagnarlo con le mani. Berninger vaga tra il microfono e la bottiglia di vino bianco dedicando lo stesso tempo ad entrambe le cose. Forse ha influito questo, o forse il missaggio dei suoni non certo impeccabile, forse il fatto che la sezione ritmica, basso e batteria, all’Alcatraz si sia persa in volume e carica.
Di sicuro le aspettative erano altre. I fratelli Dessner e Davendorf hanno suonato senza errori o scollature, ma hanno svolto il loro compitino da mediano già appagato dal risultato. Le oltre duemila persone presenti se ne sono accorte e la scarsa partecipazione emotiva non era dettata, come qualcuno ha scritto, da attenzione rispettosa e affascinata, ma piuttosto dalla mancanza di entusiasmo del quintetto sul palco.
La scaletta alternava brani da Boxer e da High Violet, con qualche incursioni nei primissimi lavori, come la bellissima Lucky You, proposta come primo bis della serata, e Cardinal song da Sad songs for dirty lovers, Abel e Mr. November da Alligator.
Il gran finale di Terrible Love, con Matt Berninger che scende dal palco e canta in mezzo al pubblico portandosi dietro il cavo del microfono è sembrata più una fuga verso il “tourbus” che un bagno di folla vero e proprio.
Usciamo sotto la pioggia sottile che a Milano sembra non voler smettere, con l’amaro in bocca per l’occasione persa. Ci si disperde in fretta e in silenzio. Certo, in questi due anni, i National hanno riempito festival e platee ben più importanti dell’Alcatraz, hanno accompagnato Obama nella sua trionfale tourneè presidenziale. Ed è proprio per questo che non riesco a giustificarli. Essere considerati Maradona comporta responsabilità, oltre che popolarità e stipendi con uno zero di troppo. Noia e appagamento non sono contemplati nel pacchetto.

Marco Spanghero

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