Gli Young Fathers non hanno bisogno di un referendum per dimostrare la loro indipendenza dalle linee guida dell'hip hop odierno: trito, ri-trito e ri-ri-trito. Infatti nel secondo nastro come nel prequel ti trovi con la mascella in mano dopo pochi minuti. L'abilità nello spaziare da canzone a canzone è evidente. Stupiscono nei panni di maestri d'emozione ("I Heard") e pathos ("Mr. martyr"), incredibili manipolatori di ritmi ("Ebony Sky"), feroci padroni del rumore ("The queen is dead"). Ma anche in grado di essere tutte queste cose in una volta sola ("Way Down in the Hole").
A caldo danno l'impressione che, invece di perfezionarsi in una direzione precisa, stiano ancora sperimentando. E se se il cammino risulta per nulla contorto, così come il risultato finale, allora lo si deve ad una coesione telepatica di gusto ed intenti senza precedenti.
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