- Frequenze Live -
Gentlemen of the Road
Mumford & Sons (plus Johnny Flynn)
30 Aprile 2010, Covo, Bologna
Un difetto di sicuro c’è: giocano male a calcio, sia i Mumford che Johnny Flynn e la sua band. Li troviamo a piedi scalzi, nel parco di fronte al Covo, sudati e presi dalla partita al punto di non accorgersi dell’ora. Non avessero avuto successo come musicisti di sicuro non sarebbe stata quella la loro strada.
Sul palco, più tardi, sembrano tuttavia divertirsi e sudare altrettanto.
Due anni fa, durante la tournè americana di Laura Marling, i Mumford & Sons facevano da spalla a Johnny Flynn and The Sussex Wit. Qui a Bologna le parti sono invertite e sono quest’ultimi ad aprire il concerto, 40 minuti in cui il frontman cambia sette strumenti con incredibile padronanza, canta e intrattiene, rapisce un pubblico che non era certo lì per lui.
Il suo folk ha radici forse più tradizionali, ma è ben suonato, quando sconfina nel blues, come nella splendida Howl, eccezionale. Dopo l’ultimo brano, nonostante l’attesa per Markus e figli, in molti chiedono il bis.
(QUI le foto)
(QUI le foto)
I quattro londinesi esordiscono, come nel disco, con Sigh no more, un coro lacerante che sembra un inno, accompagnato dagli oltre 250 presenti. Quando parte il banjo di Winston si capisce che la serata sta per prendere inderogabilmente un ritmo diverso. Le canzoni dei Mumford sono altra cosa, la loro carica dal vivo irresistibile. Incalzano ad ogni brano, lasciando sempre la sensazione che stia per accadere qualcosa, che la tensione possa esplodere da un momento all’altro, riuscendo poi a non tradire le aspettative.
Little lion man è una cavalcata, difficile star fermi, non farsi coinvolgere. Si fa fatica a distinguere le loro voci da quelle del pubblico. Il loro folk è contaminato dal bluegrass, dalle cadenze irlandesi, dalle atmosfere fumose dei pub.
White blank page è una ballata d’amore deluso, di rabbia, intensa; il contrabbasso di Ted Dwane e il pianoforte di Ben Lovett ne scandiscono la malinconia, l’accompagnano nel disinganno.
Nel mezzo il gruppo di Markus Mumford propone due inediti, Lover e un secondo splendido brano ancora untitled, che fanno ben sperare per il prossimo lavoro in studio.
Timshel è l’ultima pausa, la dolcezza che precede il finale maestoso di Dust Bowl Dance e The Cave.
A fine concerto li avviciniamo. Sono sul retro, bevono birra, fanno quattro chiacchiere con i fan che si sono avventurati all’entrata secondaria del Covo. E, inaspettatamente, riusciamo a strappare loro prima una piccola intervista, poi ancor più inaspettatamente, l’intera serata, parlando di tagliatelle, di Londra, del loro disco, di Bologna, del buttafuori che non li aveva riconosciuti, dopo il concerto, e voleva fargli pagare il biglietto (il resoconto della chiaccherata a breve in un post dedicato).
Del più e del meno, insomma. Così ho avuto modo di porre la domanda che da mesi mi passa per la testa, condizionato da Pitchfork e da molte altre recensioni non troppo positive di Sigh no more.
Del più e del meno, insomma. Così ho avuto modo di porre la domanda che da mesi mi passa per la testa, condizionato da Pitchfork e da molte altre recensioni non troppo positive di Sigh no more.
Diverse riviste di settore dubitano della genuinità del vostro progetto, vi ritengono un prodotto commerciale preconfezionato. Com’è andata, in realtà? Chi vi ha notato, com’è arrivata la proposta discografica?
Ben Lovett, il tastierista: “Tutti ci hanno notato. Non qualcuno in particolare. Da tempo giravamo qualunque club di Londra suonando quasi tutte le sere. Abbiamo fatto più di 250 cinquanta date in due anni. A quel punto noi dovevamo solo scegliere quale casa discografica usare, e non viceversa”.
Dopo averli sentiti, non posso che credere a Ben. Sono poco più che ventenni e l’ultima delle loro preoccupazioni, checché ne dicano altri autorevoli magazine, è convincere qualcuno di essere più o meno indie, più o meno autentici. Se ne fregano. Dovrebbero farlo in molti; sarebbe auspicabile che una buona parte di musicisti underground, indie, di nicchia, perdessero meno tempo a promuovere il proprio finto intellettualismo su internet e lo investissero suonando. Se non fosse che bisogna esserne in grado.
Marco Spanghero
Foto di questo post (e foto linkate):
Francesca Sara Cauli
per Frequenze Indipendenti
Nessun commento:
Posta un commento