La santissima trinità del punk Liverpooliano nel '77 (Julian Cope, Pete Wylie e Ian McCulloch) aveva un nome adatto alla circostanza: the Crucial Three. Tre ego giganteschi che non seppero stare nella stessa sala prove per più di sei settimane. O forse non ci provarono neanche. Liverpool, soprattutto in quel periodo, era piena zeppa di gruppi fantasma che si univano per gioco e in realtà non fecero mai uno straccio di prova. Un esempio furono gli Shallow Madness, una band di cui sembra aver fatto parte mezza Liverpool e che, storicamente, sarebbe diventata la line-up principale dei Teardrop Explodes (Paul Simpson, Dave Pickett e Mick Finkler), il gruppo (vero) di Julian Cope. Tornando al terzetto, Pete Wylie, appena dopo i Crucial Three, fondava gli Wah!, una band che si reincarnò un migliaio di volte (Wah!, Wah! Heat, Shambeko! Say Wah!, JF Wah!, The Mighty Wah! etc), pressocchè sconosciuta ai più in Italia, apprezzata da appassionati e fanatici dell'era wave, vedi i singoli The Story Of the Blues e Seven Minutes to Midnight, due brani (ma non solo quelli) che vale la pena recuperare in ogni party post punk che si rispetti.
La verità è che Liverpool alla fine dei settanta era la patria di Narciso. Ogni personaggio di quella scena sembrava traspirare le parole "io-sono-meglio-di-te" e denigrare senza pietà chiunque altro lo facesse, quindi più o meno tutti.
Storia vuole che un emblema di quel pensiero autocelebrativo fu proprio Ian McCulloch. Un ragazzo che perdeva ore davanti allo specchio di camera sua a provare movenze e look, ossessionato da Bowie (si faceva chiamare il Duca), che visse per due anni con il sussidio di disoccupazione, invece di frequentare l'università, aspettando che il gruppo perfetto gli si creasse intorno. Per sua enorme fortuna, così fu. Gli Echo & the Bunnymen nacquero nel '78 dai giri di basso di Les Pattison, dallo scarno drumming di Pete De Freitas, dalla lamentosa chitarra di Will Sergeant e, come dicevo, dalla voce dolcemente cavernosa di McCulloch. Un gruppo che aveva imparato a memoria le lezioni dei Television di Tom Verlaine (di cui ci occuperemo presto...Newyorkesi che fecero subito breccia nei cuori inglesi, lasciando inizialmente perplessi quelli Americani...), facendo capire che l'immediato futuro della musica inglese non era nel calore delle discendenze del blues e del rock'n'roll ma nelle gelide e lamentose stoccate di chitarre usate come languidi accompagnamenti e nulla più. C'erano ombre di Jim Morrison nella voce di McCulloch, c'erano le incertezze, le disperazioni, le angosce di una generazione che doveva ancora decidere se guardare verso il buio o la luce. E se i Joy Division e i testi di Ian Curtis erano il buio, il sound dei Bunnymen accompagnava i dubbi di McCullogh verso la luce e la salvezza. Come scrive Simon Reynolds nel libro Rip it Up and Start Again - PostPunk 78/84, riferendosi ad un loro brano: pura euforia intransitiva.
Un piccolo compendio sulla storia di Echo & the Bunnymen ce lo da questo documentario disponibile anche su You-Tube dal titolo "Meet The Bunnymen", che prende spunto dai concerti che il gruppo tenne alla McCartney Fame School di Liverpool nel 2001.
Suddiviso in quattro parti, ne consigliamo vivamente la visione.
Di seguito la prima parte e i tre link per le parti successive. Buon divertimento.
(Mp3) Echo & The Bunnymen - The Killing Moon (Brian's Sessions Version)
La verità è che Liverpool alla fine dei settanta era la patria di Narciso. Ogni personaggio di quella scena sembrava traspirare le parole "io-sono-meglio-di-te" e denigrare senza pietà chiunque altro lo facesse, quindi più o meno tutti.
Storia vuole che un emblema di quel pensiero autocelebrativo fu proprio Ian McCulloch. Un ragazzo che perdeva ore davanti allo specchio di camera sua a provare movenze e look, ossessionato da Bowie (si faceva chiamare il Duca), che visse per due anni con il sussidio di disoccupazione, invece di frequentare l'università, aspettando che il gruppo perfetto gli si creasse intorno. Per sua enorme fortuna, così fu. Gli Echo & the Bunnymen nacquero nel '78 dai giri di basso di Les Pattison, dallo scarno drumming di Pete De Freitas, dalla lamentosa chitarra di Will Sergeant e, come dicevo, dalla voce dolcemente cavernosa di McCulloch. Un gruppo che aveva imparato a memoria le lezioni dei Television di Tom Verlaine (di cui ci occuperemo presto...Newyorkesi che fecero subito breccia nei cuori inglesi, lasciando inizialmente perplessi quelli Americani...), facendo capire che l'immediato futuro della musica inglese non era nel calore delle discendenze del blues e del rock'n'roll ma nelle gelide e lamentose stoccate di chitarre usate come languidi accompagnamenti e nulla più. C'erano ombre di Jim Morrison nella voce di McCulloch, c'erano le incertezze, le disperazioni, le angosce di una generazione che doveva ancora decidere se guardare verso il buio o la luce. E se i Joy Division e i testi di Ian Curtis erano il buio, il sound dei Bunnymen accompagnava i dubbi di McCullogh verso la luce e la salvezza. Come scrive Simon Reynolds nel libro Rip it Up and Start Again - PostPunk 78/84, riferendosi ad un loro brano: pura euforia intransitiva.
Un piccolo compendio sulla storia di Echo & the Bunnymen ce lo da questo documentario disponibile anche su You-Tube dal titolo "Meet The Bunnymen", che prende spunto dai concerti che il gruppo tenne alla McCartney Fame School di Liverpool nel 2001.
Suddiviso in quattro parti, ne consigliamo vivamente la visione.
Di seguito la prima parte e i tre link per le parti successive. Buon divertimento.
(Mp3) Echo & The Bunnymen - The Killing Moon (Brian's Sessions Version)
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